Hikikomori è un termine giapponese che significa “stare in disparte” ed è stato fino a poco tempo fa un fenomeno tipicamente nipponico che però con il tempo si sta diffondendo in tutto il mondo e anche in Italia.

“Stare in disparte” comporta il fatto di isolarsi, di rimanere chiusi in casa, magari nella propria camera per settimane o mesi e rimanere in contatto con il mondo esterno solo attraverso una connessione internet che permetta di essere “social”.
Concentrandosi sui numeri italiani, la situazione è altamente preoccupante: 450mila persone tra i diciotto e gli ottantaquattro anni si sono ritirati dalla vita sociale da almeno sei mesi: di questi 290mila si definiscono Hikikomori e un quarto (quindi circa 72.500 persone) hanno avuto una esperienza di ritiro di almeno sei mesi; 107 mila giovani tra i diciotto e i trent’anni non escono di casa. Colpisce in tutto ciò anche la poca differenza di genere, nel senso che si potrebbe pensare che tale fenomeno colpisca di più i maschi ma invece anche la popolazione femminile ne è coinvolta.

Prendiamo l’esempio di Michele, di giorno trascorre il suo tempo dormendo mentre di notte trova un senso alla sua esistenza attraverso le chat di Twitch o nei giochi online. Questo ragazzo, dopo Natale, ha lasciato la scuola (stava frequentando la terza superiore in Piemonte) per chiudersi nella sua camera, nello sgomento più totale dei genitori che faticano a capire come aiutarlo, e se Michele esce dalla sua camera lo fa solo, una volta alla settimana, per andare a parlare con lo psicologo.
Sabrina Molinaro, dirigente del Dipartimento di Epidemiologia e Ricerca Sociale, ci spiega che, oltre alle condizioni di malattia o impossibilità a muoversi, la causa di questo fenomeno è attribuibile alla solitudine che porta alcuni soggetti deboli a staccarsi dalla società. C’è chi si isola per problemi di natura psicologici, chi per ragioni sentimentali o familiari mentre sembra che il bullismo non sia una delle cause maggiori.

Marco Crepaldi che ha creato l’Associazione Hikikomori Italia spiega che ogni settimana riceve una cinquantina di richieste di aiuto e che otto volte su dieci sono i genitori a contattarlo. Fondamentale per un percorso di recupero quindi, oltre ovviamente alla famiglia che deve prendere coscienza del problema, anche la flessibilità della scuola che deve trovare dei piani didattici per preservare gli studi per queste persone malate.
Anche il Gruppo Abele da qualche tempo ha iniziato a interessarsi al problema e il suo approccio va verso la formazione di una rete di supporto attraverso la ricerca di argomenti interessanti, di stimoli per provare a rompere la routine e la solitudine di queste persone. Provare quindi, senza giudicare o condannare, a creare una breccia per provare a far tornare questi soggetti malati a una vita normale.