“Il Giorno del Ricordo è per me importante perché ricordo proprio quello che è accaduto alla mia famiglia e precisamente alla famiglia di mio papà. Mio papà era nato e cresciuto a Fiume, ora Rijeka. Quando l’Italia perse la Seconda guerra mondiale, i territori istriani, che al tempo erano italiani, si unificarono diventando la Jugoslavia. Come in tutti i posti di frontiera, non tutti si sentivano prettamente italiani: tra le famiglie, infatti, c’era chi si sentiva italiano e chi croato.
Nell’albero genealogico della mia famiglia c’erano sia nomi italiani sia croati. In quelle terre vi era difatti una grande convivenza di diverse popolazioni: ad esempio, io ho sempre saputo che mia nonna era austro-ungarica. Quelle regioni erano quindi un mix di italiani, croati, ungheresi e tedeschi. Dire che fossero solo italiane, secondo me è uno sbaglio. A Fiume, per esempio, in città si sentivano italiani, mentre nelle campagne erano più croati.
Gli italiani persero la guerra e Tito riunì tutti quei popoli. La mia famiglia subito capì che non tutto sarebbe andato secondo i piani e che, probabilmente, sarebbero stati obbligati a parlare croato e a dimenticare le loro origini e tradizioni. Cercarono di andare via anche se fu molto difficile. Sappiamo che molti sono stati infoibati, ma i miei non mi hanno mai parlato di questa cosa, però mi hanno sempre raccontato quanto fosse arduo lasciare Fiume. La partenza fu complicata probabilmente perché mio nonno era un operaio specializzato del silurificio e, quindi, la mia era una famiglia benestante. Lo Stato fece di tutto per trattenerlo, ma loro decisero comunque di partire. Mio papà era già andato via da un anno perché aveva fatto il liceo a Fiume e, come si era solito fare tra i fiumani, frequentava l’università a Padova. L’altro pezzo della famiglia, composta da mio nonno, mia nonna e le due figlie, faticarono a partire. Un giorno mia nonna partì da casa e fece moltissimi chilometri per andare all’ufficio amministrativo dove rilasciavano i permessi per lasciare il Paese. Arrivata all’ufficio disse: “Guardate che io faccio l’amore in italiano con mio marito”. L’amore però, non nel senso sessuale, ma proprio per dire che in casa Marceglia si parlava italiano. Alla fine le rilasciarono il permesso e riuscirono ad arrivare in Italia che, nel periodo post guerra, era in fase di ricostruzione e non riusciva a smistare tutte le richieste che riceveva. Furono quindi messi in uno dei tanti centri in attesa di essere sistemati e di trovare casa. Questi luoghi, però, non erano centri di lusso, anzi, c’erano spazi di due metri per tre, divisi da coperte, dove le famiglie “alloggiavano”. I miei nonni e le mie zie rimasero in questi centri per circa due anni, prima a quello di Trieste e poi in uno in Liguria. Non vi era nessuna intimità e stare in quei piccoli spazi in quattro era molto difficile.

Mio padre, nel frattempo, continuava gli studi con la scontentezza di mio nonno, che voleva che rimanesse ad aiutare la famiglia. Mio papà voleva a tutti i costi diventare un medico, quindi continuò a studiare a Padova, mangiando alla mensa dei poveri perché il nonno, al tempo, non gli dava neanche una lira per lo studio. Alla fine andò in America, dove entrò nel corpo dei Marines. Tornato dall’obbligo militare, ottenne una borsa di studio e riuscì a laurearsi. Il resto della famiglia, fortunatamente, riuscì a trovare un appartamento a Torino dopo che mio nonno era riuscito a trovare un impiego alla Fiat.
Sono in molti quelli che dicono che questa vicenda si possa descrivere come un mostro a tre teste: una testa è la foiba, un’altra l’esodo, cioè l’esser costretto a lasciare i propri averi e le proprie terre. L’ultima, invece, è rappresentato da questi centri, dove non si avevano le minime condizioni necessarie per vivere. Molte persone, infatti, sono proprio andate fuori di testa a causa delle precarie condizioni e c’è anche chi è dovuto rimanerci per molto tempo. Devi pensare che una mia zia ha mantenuto la famiglia rammendando calze, mentre mio nonno, che era ancora in gamba, faticava a trovare un lavoro adatto a ciò per cui aveva studiato. Dopo tutta questa vicenda loro sono sempre stati legati a Fiume e, per esempio, girava sempre per casa questa rivista, chiamata ‘La voce di Fiume’.”

Come ricordi questa giornata così importante?
Quest’anno ho scritto un romanzo per ragazzi, ambientato a Fiume, però nel 1912, cioè prima dello scoppio della Prima guerra mondiale. Voglio raccontare di come Fiume era una città fiorente, centro di varie industrie e porto del regno d’Ungheria, che vi aveva investito tantissimo. C’era una ferrovia, c’era il tram che passava, c’era addirittura una linea che partiva da Fiume e andava a New York con tutti i migranti, che venivano in parte da Fiume e in parte proprio dal centro Europa. Era, inoltre, una città dove prima dei nazionalismi del Novecento convivevano bene tante culture e tante etnie differenti.
Le tue zie non hanno mai voluto tornare a vivere a Fiume?
“No, ma ti dirò di più. Una zia mi raccontò che c’è stato un scandalo all’interno della famiglia perché aveva ricevuto, da una cugina fiumana deceduta, una casa. La zia, però, rinunciò a questa casa e l’avvocato dei cugini croati chiamò molte volte perché non si capacitava di questa sua scelta. La cugina, infatti, voleva riallacciare i rapporti tra i membri della famiglia, perché una parte di essa, sentendosi croata, rimase al tempo a Fiume, ma mia zia, testarda, disse che avevano fatto una scelta e che quindi potevano tenersi la casa. I miei nonni erano invece un po’ più nostalgici e, forse, sarebbero tornati se avessero avuto l’occasione. Hanno comunque amato tantissimo anche Torino, che li ha accolti e lì si sono rifatti una nuova vita.”
Se fossi stata nei panni dei tuoi familiari, avresti lasciato Fiume o saresti rimasta?
“E’ una bella domanda a cui però non so darti risposta. Recentemente ho pensato a Fiume e al fatto che se dovessi trasferirmi mi sposterei là e ci morirei, perché c’è il mare ed è una bella città. La loro scelta è stata tanto difficile e sicuramente bisognerebbe viverla per comprenderla al massimo. Io tengo alla cultura italiana quindi, effettivamente, non sono legata alla cultura croata. Adesso come adesso sceglierei sicuramente l’Italia, perché bisognava essere nella famiglia per capire quanto pesasse la cultura croata. I miei parenti ci tenevano tanto alla bandiera italiana, infatti ne ho una tutta rattoppata. Erano molto legati alla loro italianità e, sicuramente, la mia famiglia si è conquistata l’Italia.”












