Don Antonio Fasani, eroe della Resistenza: la testimonianza di Irene Faccio

La storia del parroco di Lughezzano che, durante la Seconda guerra mondiale, rischiò la vita per salvare una bambina.

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Immagine di Don Antonio Fasani, parroco di Lughezzano
Immagine di Don Antonio Fasani, parroco di Lughezzano

Quasi 81 anni fa, nell’ottobre del 1944, don Antonio Fasani, parroco di Lughezzano, un piccolo paese di circa 200 abitanti nel comune di Bosco Chiesanuova, fu catturato e torturato dai fascisti per aver aiutato e nascosto la figlia di Giuseppe Marozin, un noto comandante partigiano della Divisione Pasubio. 

Giuseppe Marozin

Vera Marozin, di appena 21 mesi, era stata rapita alla nonna nel piccolo paese di Pasquali di Crespadoro, in provincia di Vicenza. La bambina venne poi trasferita a Verona, dove fu accolta prima dalle suore Orsoline e successivamente dalla Casa dei Lattanti, un’istituzione che ospitava bambini orfani e abbandonati. Per recuperare la piccola, due partigiani si travestirono da soldati delle SS e riuscirono a sequestrarla dalla Casa dei Lattanti, portandola a Lughezzano.  

Qui entra in scena don Antonio Fasani, all’epoca 37enne, parroco del Santuario della Madonna dei Sette Dolori nonché della Chiesa di San Bernardo di Chiaravalle. I genitori di Vera, entrambi attivamente impegnati nella Resistenza, chiesero al parroco di aiutarli nascondendo la bambina. Don Antonio, consapevole del rischio, accettò e affidò la piccola alle suore Canossiane, che si impegnarono a proteggerla trasferendola, infine, a Costermano, comune situato sulla riva orientale del lago di Garda.

Nel frattempo, i fascisti, intenzionati a usare Vera per esercitare pressione su suo padre, fecero irruzione alla Contrada Rocca, sulla strada per Erbezzo, dove viveva Luigi, il fratello di don Antonio, con sua moglie e i quattro figli. I fascisti, convinti che Vera fosse nascosta tra quei bambini, catturarono Luigi e lo caricarono su un camion diretto a Lughezzano, con l’intenzione di fucilare don Antonio e i suoi aiutanti.

Arrivati a Lughezzano, i soldati entrarono nella chiesa mentre don Antonio stava celebrando la seconda messa del giorno. Al termine della celebrazione, lo trascinarono in piazza, dove lo legarono a una sedia e iniziarono a prepararsi per l’esecuzione.
Raccontano che sua madre, Elisabetta, reggendosi appena in piedi davanti a quella scena straziante, pronunciò queste parole: «Come la Madonna ha dato suo figlio, io do il mio», mentre il figlio la raccomandava ai parrocchiani insieme alla sua chiesa. In quel momento, i soldati, con le armi già puntate, furono bloccati dall’arrivo di un’altra camionetta di camicie nere, che ordinò di non sparare. Don Antonio fu quindi caricato su un mezzo e portato a Verona, dove subì atroci torture.

Nel frattempo, i fascisti avevano minacciato di incendiare il paese di Lughezzano. I cittadini, terrorizzati, si rifugiarono a Camposozzo, dove viveva la signora Irene, che testimonierà gli eventi, ricordando come la comunità si fosse rifugiata nella sua Contrada in cerca di salvezza. Fortunatamente, però, il paese non fu bruciato, sollevando l’animo degli abitanti di Lughezzano.

Don Antonio, dopo essere stato martoriato, fu condannato a morte: la pena fu però commutata in deportazione e infine, per interesse del vescovo Girolamo Cardinale, divenne reclusione in seminario. Don Antonio fuggì il 25 Aprile 1945 per ritornare a Lughezzano dai suoi parrocchiani. Don Antonio fu nominato Monsignore e morì, poi, nel 1992.       

Irene Faccio
Irene Faccio

Ma chi era don Antonio? Irene Faccio, che ebbe la fortuna di conoscerlo, lo descrive così: “Don Antonio era una persona di grande intelligenza, e per quanto mi riguarda lo consideravo un vero uomo santo. La sua semplicità e sincerità lo rendevano speciale. Nonostante i momenti difficili, durante la questua, il parroco riusciva a raccogliere molti beni, che però non tratteneva mai per sé, ma donava alle famiglie più bisognose. Ricordo anche alcuni suoi compleanni: quando riceveva regali, soprattutto vestiti, li cedeva tutti, senza mai tenere nulla per sé.” 

“Anche mio zio – racconta Irene – fu rapito e torturato assieme a don Antonio. Quando furono liberati, non erano più gli stessi di prima. Al tempo le fucilazioni erano diffuse; ad esempio conoscevo Giovanni Morandini, partigiano e patriota che, accusando il maresciallo dei fascisti che voleva mandarlo al fronte, fu fucilato in Contrada Saina a Bosco. A lui fu poi intitolata la piazzetta tra la chiesa di Lughezzano e la strada vecchia di Bosco”. 

“Io all’epoca, durante la guerra, nonostante vivessi a Camposozzo e la mia scuola fosse a Bosco, prendevo lezioni a Lughezzano. Noi bambini, il sabato, durante il saggio, eravamo tenuti a fare ginnastica in uniforme da Balilla. Ricordo molto bene la divisa che avevamo: noi femmine spesso non potevamo permetterci la gonnellina poiché al tempo c’era parecchia povertà. La domenica, poi, quando andavamo a Messa, celebrata sempre da don Antonio, ricevevamo dai nostri genitori pochissimi spiccioli, purtroppo però, non riuscivamo nemmeno a comprare una mela. L’unica cosa che potevamo permetterci era un filetto di liquirizia o un paio di confettini”.  

“Quegli anni furono terribili per tutti: i rastrellamenti dei partigiani erano frequenti, e molti di questi ragazzi, per sfuggire ai fascisti, si rifugiavano nei boschi. Spesso passavano aerei, noi ci nascondevamo. Una volta accadde che uno di essi, volando molto basso, scaricasse una pioggia di bigliettini colorati per propaganda”. 

“La guerra porta solo miseria, povertà, morte e distruzione” afferma, dunque, la signora Irene. 

“Alla fine della guerra, durante la ritirata dei tedeschi, i soldati passarono. Mia madre mi diede un uovo e mi disse di portarlo a uno dei ragazzi che stava marciando. Io mi feci strada tra di loro e lo consegnai a quello che mi sembrava più malandato. Lui mi ringraziò moltissimo. Questo, secondo me, è un bellissimo esempio di come, nonostante non parlassimo la stessa lingua, la compassione e l’umanità possano superare ogni barriera. In quel gesto, c’era più di un semplice scambio: c’era la speranza che, al di là dei conflitti e delle differenze, restassero sempre le persone, con i loro bisogni e le loro emozioni. Questo pensiero era anche caro a don Antonio, che in ogni sua azione cercava di mettere al centro l’amore per l’altro, al di sopra di qualsiasi divisione.” 

Guardando storie come quella di don Antonio Fasani, ci rendiamo conto che è grazie al coraggio di chi ha lottato e fatto sacrifici enormi che oggi possiamo godere del benessere e della libertà che spesso diamo per scontati.

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