Accademia Alive, intervista a Silvia Masotti e Camilla Zorzi

Due insegnanti di teatro spiegano come viene portato avanti il lavoro con i diversi gruppi e che cambiamenti la pandemia potrebbe comportare al mondo dello spettacolo

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Benissimo, stiamo iniziando! Buongiorno a tutti i lettori di Ermes! Oggi intervisteremo due insegnanti di teatro di A.Li.Ve, Accademia Lirica Verona. Diamo quindi il benvenuto a Silvia Masotti e Camilla Zorzi, salve! 

SILVIA E CAMILLA: Buongiorno a tutti

Silvia e Camilla oggi ci parleranno di come stanno gestendo il lavoro sui diversi spettacoli in quarantena e ci daranno un’opinione sui cambiamenti che la pandemia potrebbe comportare al mondo dello spettacolo.

Iniziamo quindi con una domanda un po’ più personale: voi, che per la vostra attività siete abituate a lavorare a stretto contatto con le persone quasi ogni giorno, come state vivendo questa situazione?

SILVIA: Non l’abbiamo presa benissimo all’inizio. No, ovviamente lavoriamo con il teatro, che obbliga alla presenza, quindi la prima risposta che mi viene da dare è che è stato, ed è, limitante. Ci sono arti che si possono fare da soli: si può suonare uno strumento da soli, si può dipingere da soli, il teatro obbliga alla relazione. Si fa teatro con gli altri e teatro si fa a stretto contatto, non a distanza di un metro, non mantenendo distanze di sicurezza, anzi, andando proprio oltre quelle distanze. Si lavora con il movimento, si lavora sull’emozione, si lavora da vicino: sono tutte cose che richiedono la presenza. Questo sia che uno faccia teatro per mettere in scena degli spettacoli, per fare l’attore, che è quello che abbiamo fatto noi quando facevamo le attrici, sia che è quello che riguarda invece il lavoro con i ragazzi, che è quello che facciamo noi. In un secondo ci sono venute a mancare due cose: da una parte tutto quello che riguarda lo strumento del teatro e dall’altra tutto quello che riguarda la relazione con le persone, perché avere una relazione in presenza è, secondo noi, l’unico modo per avere una relazione effettivamente in profondità. Il teatro lavora con il corpo e in questo momento il corpo è fermo, quello che vediamo del corpo dell’altro dietro ad uno schermo è una piccolissima parte del suo corpo, quindi la prima cosa che abbiamo visto di questa chiusura e che abbiamo sentito su di noi è stato un grossissimo limite, e non solo su di noi. 

Certo. Quindi che soluzione avete trovato per continuare a tenere le lezioni di teatro?

CAMILLA: All’inizio, non essendo particolarmente tecnologiche abbiamo un po’ diffidato delle lezioni a distanza, non sapevamo bene come organizzarci. C’è anche la frustrazione di dover improvvisamente cambiare qualcosa che sai di saper fare e anche che ami profondamente e di vederlo immediatamente trasformato. Ci siamo un po’ organizzate e abbiamo ripreso a fare lezione, ovviamente non con gruppi grandi, ma dividendoli in piccoli gruppi, in modo che anche su Skype o su diverse piattaforme comunque si mantenga la relazione. Siamo andate avanti con il lavoro delle prove, abbiamo ripreso le scene, abbiamo lavorato con i ragazzi ognuno a casa sua, ma cercando una relazione dietro uno schermo e devo dire che in questo l’ascolto e l’attenzione di tutti ci ha anche impressionato. Poi, però, abbiamo sentito la necessità in questo momento con i ragazzi, soprattutto con quelli più grandi, di considerare che in fondo tutti noi abbiamo bisogno anche di entrare in contatto con le nostre emozioni, perché per quello che è successo, per il modo di essere chiusi in casa, ci siamo sentiti tutti forse bloccati e un po’ congelati, è vero che il teatro è una forma potente di relazione di esseri umani con altri esseri umani, però i testi che abbiamo scelto, comunque in generale i testi teatrali lo sono, sono anche una potente occasione di riflessione su sé stessi, sul mondo e anche proprio sulle nostre emozioni più profonde. Quindi al di là di puntare, come dire, al risultato, all’obiettivo finale che è lo spettacolo, abbiamo dovuto un po’ spostare l’obiettivo e concentrarci sul percorso: abbiamo proposto ai vari gruppi dei momenti di riflessione sui personaggi, sulle tematiche, sul pensare ai personaggi in rapporto a noi, nel presente, sul pensare queste tematiche in rapporto alla situazione che stiamo vivendo. La creatività di tutti ci ha sorpreso, ci ha stimolato, ci ha poi fatto tornare al testo o anche alle prove, insomma quelle che chiamiamo prove, con dell’entusiasmo in più. Abbiamo usato molto lo strumento del video, anche per fissare queste testimonianze, che non era uno strumento che prima conoscevamo nè che ci era congeniale, anche perché il teatro è un’arte effimera e vive nel momento in cui accade, forse è anche la sua bellezza. Devo dire che tutti questi video che abbiamo raccolto, queste testimonianze scritte, perché alcuni gruppi hanno proprio prodotto dei testi, che ci sono rimaste di questo tempo rimarranno nella memoria, ci permetteranno a tutti anche di ricordare quando forse torneremo ad una parvenza di normalità, anche forse di dare un valore alle cose. Questa è una nostra speranza. Ecco questo è quello che siamo riuscite a fare.

Immagino che comunque nel provare le scene davanti ad uno schermo ci siano, sia per gli allievi che per voi, parecchie difficoltà. Quali sono le principali e come influiscono sul lavoro e sul progresso dei diversi spettacoli?

SILVIA: Le difficoltà sono parecchie. Ci sono alcune difficoltà che riguardano, io immagino, qualsiasi cosa che passi da uno schermo, anche le lezioni online a scuola. La connessione che improvvisamente parte, quando senti una parola su cinque, quando alla persona con cui stai parlando casca la connessione e gli altri non sanno più con chi parlare: queste sono delle difficoltà logistiche che hanno a che fare con chiunque usi uno schermo. Le difficoltà che riguardano principalmente lo strumento del teatro che noi abbiamo trovato e con cui abbiamo cercato di confrontarci sono che l’insegnamento, che per noi non è neanche l’insegnamento, ma è avere a che fare con il teatro e trasmettere qualcosa con il teatro, passa dalla relazione, una relazione in cui è difficile proprio stabilire esattamente che cosa passi. Certo che la relazione con uno schermo in mezzo e in cui vedi l’altro grande come un francobollo è una relazione molto mediata. A volte succede alle prove, quando qualcuno improvvisamente si mette a ridere o a piangere in un punto capisci che quella cosa è importante messa e detta in quel modo lì, capisci un movimento e uno spostamento perché il corpo lo capisce prima di te o perchè ti avvicini a qualcuno e in quel momento il suo rapporto con il testo diventa più chiaro. La comunicazione nel teatro passa da tantissimo, passa molto poco dalla parola oppure ci passa, ma attraverso mille altre sfaccettature. Anche la distanza che c’è tra quando la mia parola arriva nell’altro viene capita, diventa qualcos’altro: è come se ci fosse un tempo totalmente innaturale, che è stato nuovo per noi e per i ragazzi ed è stata una fatica abituarsi a questo. Poi manca il corpo: il teatro è lo spazio in cui le cose si capiscono proprio attraverso il corpo, si può capire l’Orlando Furioso attraverso il corpo, si possono capire i Promessi Sposi attraverso il corpo, si può capire Re Lear attraverso il corpo, si può capire la Divina Commedia attraverso il corpo e se il corpo è tolto manca la parte fondamentale. Quello che mi viene da dire pensando alle difficoltà è che è stato possibile fare e andare avanti con questo lavoro perché prima in presenza noi di fatto abbiamo lavorato con tutti i gruppi da settembre a febbraio e tutto il lavoro fatto ci ha permesso poi di portarlo avanti, perché si è lavorato sul gruppo, ci si era già innamorati dei personaggi, si era già entrati nella parte più emotiva del lavoro ed è come se tutto questo abbia fatto da motore, da fuoco per tutto quello è venuto dopo. Io immagino che non sarebbe stato possibile fare la stessa cosa se non si fosse già costruito prima tantissimo, quindi abbiamo preso quello che si era costruito e l’abbiamo portato attraverso una strada fatta anche di difficoltà. 

Certo. Secondo voi, è calato l’entusiasmo dei ragazzi in questa attività non essendoci più, come avete detto all’inizio, quella parte di lavoro fisico? 

CAMILLA: Questo forse dovremmo chiederlo a loro. Quello che noi abbiamo notato che forse è stata la mancanza più grossa per tutti è quella del gruppo, dell’essere insieme perché questo non l’abbiamo più potuto fare, nel senso che in troppi sulle piattaforme è veramente impossibile provare, non ha nessun senso. Questo ci manca, manca a noi per prime e immaginiamo che manchi moltissimo anche ai ragazzi, come manca il gruppo scuola, manca tanto di tutto in questo momento, forse un po’ troppo per i ragazzi. Una cosa che invece abbiamo notato è che i ragazzi sono stati bravissimi ad organizzare lo spazio in assenza, quindi a recitare con gatti, elementi della casa, a spostare letti, ad adeguare la geografia delle proprie camerette allo spazio scenico e questo in certi casi ci ha quasi commosso, oltre che divertito, a evocare l’altro in assenza, a crearlo. Questa è una grande possibilità immaginativa perché dà molta forza. Poi abbiamo notato anche una grandissima attenzione, perché ovviamente negli strumenti delle varie piattaforme c’è un giorno in cui non funziona, la voce arriva dopo, quello che ha una connessione scadente, ma tutti hanno avuto una grandissima pazienza e un grandissimo rispetto: abbiamo assistito a scene dove la voce continuava a saltare, ma loro continuavano ad andare dritti per aiutare l’altro e comunque per cercare di essere sintonizzati. È stato fatto un grande esercizio di rispetto e di ascolto, e questo ci ha stupito e impressionato e ha avuto a che fare con una cosa, secondo noi, molto importante del teatro, anche un po’ dimenticata, che è proprio l’idea del gruppo, della solidarietà e di una condivisione. Questa si è riuscita a tenerla affrontando la fatica anche al di là dello strumento virtuale. In questo i ragazzi sono stati bravissimi, ci hanno stupito. 

Grazie. Una volta riaperti i teatri, cambierà il rapporto col pubblico? Mi spiego meglio: a vostro parere, le persone avranno voglia più di prima di vedere uno spettacolo dal vivo? 

SILVIA: Questa è una bellissima domanda, non solo fatta a noi. 

CAMILLA: Ma che ci facciamo anche noi

SILVIA: È una bella domanda da fare al nostro paese e anche da fare al teatro in generale. È vero, a volte quando ci tolgono qualcosa ci rendiamo conto proprio nel momento in cui ci è stato tolto che quella cosa ci manca terribilmente. Tanti ragazzi ce l’hanno detto in questo periodo: “non mi ero mai accorto quanto mi mancasse andare a vedere del teatro”, quando c’è una mancanza c’è anche un desiderio, quindi vuol dire che da qualche parte quel desiderio c’era e quando si potrà tornare a teatro ci si tornerà sapendo come si sta quando quella cosa è venuta a mancare. Noi speriamo che succederà, il teatro è un’arte strana per i nostri tempi, siamo abituati al video e ad avere tutto davanti: se vogliamo vedere un film non c’è neanche la difficoltà di dover andare al cinema per vederlo perché ce l’abbiamo vicino. Ogni tanto noi andiamo a teatro e ci rendiamo conto che spesso a teatro non ci va tantissima gente, ad esempi i giovani non ci vanno tantissimo. Noi speriamo che questa sia un’occasione per cui le persone tornino a teatro. Mi viene in mente una cosa perché ha a che fare con questi giorni, ieri è morto un grandissimo attore francese Michel Piccoli. Io mi ricordo, ero giovane avrò avuto 18 o 19 anni e anche Camilla

CAMILLA: Mamma mia

SILVIA: E l’abbiamo visto in scena in un suo spettacolo dal vivo, uno spettacolo che si chiamava Tan main dans la mienne. Erano in scena due attori e non c’era niente nient’altro: erano loro due che raccontavano una storia 

CAMILLA: E la regia era di Peter Brook

SILVIA: E la regia era di Peter Brook, sì. Io mi ricordo, ed è un ricordo che ho fortissimo nonostante siano passati tanti anni, che lo spettacolo è finito e tra la fine dello spettacolo e l’inizio degli applausi saranno passati tre minuti interminabili di silenzio totale, in cui tutti piangevano. Poi è partito l’applauso, che è stato liberatorio. Quella sensazione lì, quando la provi, quando provi la bellezza di essere in un teatro insieme ad altre persone a condividere qualcosa di grande e non ce l’hai più, ti manca e quando ci torni sai che forse non puoi vivere senza. In realtà io spero che a teatro dopo questa chiusura ci andranno più persone di prima, sapendo che “del teatro in fondo – come diceva Cechov, che era uno scrittore di teatro – non si può fare a meno”. 

Ecco. Invece sempre riguardo al rapporto spettatori-spettacolo, questo periodo di emergenza influirà sulla sulla scelta di argomenti futuri? Ci avete già un po’ pensato? 

CAMILLA: Ci abbiamo pensato, ma è difficile prevedere, è un momento in cui facciamo fatica a pensare anche al futuro prossimo. Siamo tutti molto concentrati sul presente, perché è un presente un po’ di emergenza e quindi facciamo fatica tutti noi a concentrarci e a riflettere. Noi non sappiamo se il teatro da qui in poi parlerà del Covid oppure se si troveranno nuovi argomenti o nuove forme, possiamo esprimere una speranza, forse ci facciamo un augurio. Ci abbiamo pensato molto in questo tempo, l’augurio è che il teatro abbia il coraggio di recuperare due cose antiche, che però hanno a che fare con il senso profondo per cui il teatro è nato, mi riferisco alla tragedia che è l’inizio della storia del teatro occidentale: una è la relazione, nel senso che abbiamo assistito negli ultimi anni a tanti, troppi, monologhi, abbiamo assistito a diversi spettacoli dove si faceva molta fatica a capire, molta sperimentazione, sperimentazione molto fine a sé stessa oppure addetti ai lavori. Noi ci auguriamo che la relazione tra esseri umani, che ci manca così tanto in questo momento, ritorni ad essere un po’ l’argomento del teatro con semplicità, che non vuol dire facilità, la semplicità è un risultato molto difficile da ottenere, ma anche con profondità, con essenzialità, con qualcosa da dire di vero e diretto, che riguardi tutti gli uomini, perché in questo momento c’è bisogno di questo senso, di questo sentimento comune. Un’altra cosa che speriamo e ci auguriamo che il teatro recuperi dal passato, dalla sua storia, dalle sue origini, dalle sue radici, è la sua dimensione politica. Questo non vuol dire essere un teatro di destra, di sinistra, di centro, di tutto quello che c’è, ma la sua dimensione politica nel senso proprio greco πόλις, cioè di collettività. Il teatro è un’arte collettiva, che permette al collettivo di riflettere su sé stesso, di arrivare in fondo a delle questioni che appunto non sono solo individuali. Viviamo in una società tremendamente individuale e individualistica, in Italia ci scontriamo tutti i giorni con la fatica che facciamo ad essere italiani, a contestualizzarci in un collettivo e a capire che ci sono anche gli altri oltre alle nostre necessità. Ecco, che il teatro ricominci a parlare di questo collettivo, perché il teatro è un luogo dove l’uomo come insieme di persone può confrontarsi con sé stesso, può crescere, può imparare, può continuare ad andare a scuola anche da adulto. Questo ci farebbe molto bene. Come dice Shakespeare, “Il teatro è della stessa sostanza dei sogni”, i sogni ci fanno vedere quello che di giorno a volte non vorremmo vedere, ci mostrano un’altra parte, un’altra realtà. Ecco, che il teatro ci metta di fronte anche a cose scomode, ma cose necessarie che ci fa bene vedere. Questo ce lo auguriamo

Giusto. Grazie, con questa prospettiva sul futuro si conclude qui la nostra intervista. Ringraziamo nuovamente Silvia e Camilla per essere state così disponibili, vi auguriamo veramente un buon lavoro. Grazie

SILVIA E CAMILLA: Grazie anche a voi, ciao!

Abbiamo visto quindi come questa quarantena obblighi tutti a fermarsi, ma anche come le attività abbiano reagito e stiano ancora reagendo con fiducia attivandosi e ingegnandosi per portare avanti i propri progetti.

Adesso, arrivati a questo punto, vi ringrazio dell’attenzione e arrivederci.

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