L’mRNA e la rivoluzione nella concezione dei vaccini

Nell’ultimo anno abbiamo assistito ad un’impresa storica: lo straordinario lavoro di scienziati, biochimici e bioinformatici che in un tempo record hanno reso possibile la creazione di un vaccino anti SARS-CoV-2. Ma come è stato possibile ridurre in modo così drastico i tempi quando normalmente un vaccino richiede anni di lavoro?

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Quando pensiamo a un farmaco o a un vaccino, solitamente non ci soffermiamo a riflettere o forse neanche ad immaginare il processo che rende possibile la sua realizzazione e la sua successiva distribuzione. Così a marzo, quando abbiamo sentito parlare della turba infinita di aziende farmaceutiche o specializzate nell’ambito delle biotecnologie già al lavoro al fine di fornire un vaccino entro la fine dell’annoprobabilmente non ci siamo posti il dubbio inerente alla fattibilità di quelle dichiarazioni. Se noi andassimo a riprendere i vaccini che sono stati approvati da settant’anni a questa parte, infatti, vedremmo come il processo sia molto più lungo e complesso rispetto all’apparenza.

Un qualsiasi vaccino, seguendo uno dei metodi tradizionali, parte da una coltura cellulare applicata a cellule di mammiferi o insetti da cui successivamente vengono estratti antigeni del virus destinati all’iniezione. Il sistema immunitario, avendo riconosciuto queste proteine come elementi estranei, è portato a formare anticorpi che verranno memorizzati per contrastare un’infezione futura del virus reale.

Se applicassimo questo approccio alla pandemia che ci sta attanagliando da mesi, sicuramente andremmo a cadere nel fallimento per l’urgenza dei risultati che dobbiamo ottenere. Una persona, però, potrebbe evidenziare il fatto che i virus influenzali ad esempio cambiano ogni anno e che prontamente ogni anno vengano proposti dalle apposite autorità sanitarie i vaccini più idonei. In effetti per virus già noti l’isolamento degli antigeni richiede un tempo relativamente ristretto e compreso tra i quattro e i sei mesi. Per i nuovi patogeni invece è totalmente diverso, con tempi di ricerca che possono allungarsi negli anni.

Sulla base di queste premesse, dunque, comprendiamo come per far fronte a un’emergenza che aveva ormai passato la soglia della prossimità e aveva raggiunto quella dell’effettiva presenza fosse necessario l’utilizzo di una strada alternativa. Questa via nova è rappresentata dall’RNA e più precisamente dall’mRNA (RNA messaggero).

Nelle nostre cellule il materiale genetico (DNA) è contenuto nel nucleo. Partendo dal DNA attraverso il processo di trascrizione viene creato un filamento di mRNA che porta ai ribosomi le informazioni per sintetizzare le proteine. Qui nasce l’idea geniale: sarebbe mai possibile iniettare nel corpo umano dei filamenti di mRNA che entrino nelle cellule e diano ai ribosomi le informazioni per sintetizzare l’antigene che permette al SARS-CoV-2 di legarsi alle nostre cellule? Se fossimo quindi in grado di crearci da soli questo antigene (che nel caso del Covid-19 prende il nome di “proteina Spike”) il nostro sistema immunitario, una volta riconosciuto questo elemento come estraneo, sarebbe velocemente in grado di formare anticorpi senza il rischio di subire infezioni e quindi porterebbe il nostro organismo ad essere immune nei confronti del virus.

Dobbiamo far presente che la strada dell’mRNA non è un’intuizione che si è avuta nell’ultimo anno, ma è il frutto di anni di lavoro da parte di numerosi biochimici e aziende; in particolar modo Moderna, fondata nel 2010 e attiva nell’ambito della ricerca e lo sviluppo di farmaci basati sull’RNA messaggero, insieme a Pfizer e all’azienda tedesca “BioNTech”, sarà la prima a portare sul mercato un vaccino a mRNA.  

Nonostante il grandissimo entusiasmo, questo tipo di vaccino ha generato nel mondo scientifico anche qualche nota di scetticismo per tutte le problematiche che sorgono nel momento in cui si ha l’intenzione di far arrivare un mRNA esterno fino ai ribosomi.

In primo luogo l’ostacolo emerso ancora una ventina di anni fa è quello che può essere definito “rigetto”; cioè il sistema immunitario che attaccando l’mRNA considerato elemento alieno porta non solo all’inefficacia del farmaco ma anche ad una reazione immunitaria eccessiva che può causare gravi danni alla salute.

La soluzione a questo primo inconveniente è stata fornita dai biochimici Kariko e Weissman che nel 2005 hanno pubblicato uno studio fondamentale per le ricerche future. Questo studio si basava proprio sulla struttura dell’RNA in funzione di evitare il rigetto.

Un filamento di RNA normalmente contenuto nelle nostre cellule è formato da una serie di “mattoncini” che prendono il nome di nucleotidi o nucleosidi se non si considera il gruppo fosfato, i quali possono essere divisi, a seconda della base azotata che li contraddistingue, in quattro tipologie: guanosinaadenosinacitidina e uridina. Questi scienziati si sono accorti che il rigetto era dovuto al nucleotide con base azotata uracile, quindi all’uridina. Il passo successivo è stato quello di sostituire nella sequenza di questi mattoncini tutte le uridine con pseudouridine (una base azotata che ritroviamo soprattutto nei filamenti di tRNA) e quindi risolvere definitivamente questo problema.

La seconda problematica che emerge si manifesta quando l’mRNA è giunto ai ribosomi. Ci si è accorti infatti che se da un lato la sostituzione dell’uridina con la pseudouridina porta l’mRNA a eludere il sistema immunitario, dall’altra porta il filamento a piegarsi su se stesso con la conseguente complicazione nella lettura da parte dei ribosomi o, nel peggiore dei casi, l’arresto completo della traduzione.

Per capire la soluzione che è stata adottata dobbiamo riprendere i mattoncini che compongono un filamento di RNA dei quali abbiamo parlato precedentemente. Ogni tre mattoncini formano un codone, ogni codone è come un codice che viene riconosciuto dal ribosoma e che corrisponde a un singolo amminoacido che deve essere sintetizzato. L’aspetto fondamentale, però, è che ci sono codoni diversi, quindi formati da combinazioni diverse tra i quattro nucleotidi (mattoncini) possibili, che codificano per lo stesso amminoacido. Se aggiungiamo il fatto che è stato scoperto dai bioinformatici che posizione e frequenza di queste pseudouridine portano il filamento a piegarsi diversamente e a cambiare il modo con cui interagisce con il ribosoma, il gioco è fatto. Basterà scoprire i codoni più adeguati tra i molti disponibili che codificano per un determinato amminoacido e di conseguenza arrivare a una sequenza completa di una proteina tenendo conto quindi della posizione e della frequenza che le pseudouridine necessitano per non portare la traduzione ad arrestarsi.

Il codice genetico basato sulla combinazione (a gruppi di 3) tra i nucleotidi. Si può notare come un amminoacido abbia più di un codice possibile

Questo meccanismo, se attuato tramite il metodo empirico, sarebbe impossibile nella realizzazione, date le numerosissime combinazioni possibili. Tuttavia la soluzione viene fornita da Michelle Lynn Hall, chimica quantistico-computazionale, che scopre un algoritmo in grado di selezionare la sequenza nucleotidica migliore per far piegare il filamento nel modo più funzionale possibile e quindi per sintetizzare una determinata proteina permettendole di essere introdotta nell’organismo.

Il terzo è ultimo problema risiede, come il primo, nel percorso che porta l’RNA alle cellule. Si deve far presente che questo filamento è una struttura molto fragile e non a caso il nostro DNA per essere protetto e preservato viene lasciato all’interno del nucleo cellulare. Se non protetto adeguatamente, dunque, un filamento di RNA rischierebbe di disgregarsi prima ancora di arrivare alla cellula. Per risolvere quest’ultima problematica si è deciso di circondare il filamento con nanoparticelle lipidiche che, oltre a preservare l’mRNA, permettono allo stesso un ingresso più semplice nella cellula.

Spiegato il meccanismo di questo nuovo metodo, quello su cui vorrei far riflettere è ciò che esso può potenzialmente comportare per le nostre vite. Stiamo assistendo a un cambiamento rivoluzionario non solo nella concezione dei vaccini, che rappresentano unicamente un sottoinsieme in confronto all’universo dei potenziali ambiti ai quali questo tipo di metodo biochimico può essere applicato, ma anche nella cura di malattie genetiche che comportano l’impossibilità di produrre determinate proteine. Pensiamo ad esempio all’emofilia, malattia che comporta la mancanza di materiale genetico che codifica proteine indispensabili per la coagulazione del sangue. In questo caso, assumendo periodicamente l’mRNA che ha le informazioni per quelle proteine, si può facilmente curare la patologia in modo praticamente assoluto e risolvere problemi decennali che erano rappresentati dall’incapacità di rendere la proteina destinata all’assunzione completamente compatibile con il nostro organismo e quindi completamente funzionante. È il caso, ad esempio, dell’insulina per il diabete. Ora la proteina potrebbe essere prodotta direttamente dalle nostre cellule e non assunta dall’esterno con possibili criticità nella sua operatività.

Possiamo concludere affermando che siamo spettatori di qualcosa di straordinario, qualcosa che rivoluzionerà il modo con cui noi guarderemo e giudicheremo le malattie genetiche, qualcosa che sta rivoluzionando il modo di vedere la biochimica e che si calerà all’interno del nostro quotidiano stravolgendolo completamente.

E il bello è che questo è solo l’inizio.

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