Era una ragazza come noi: amava la famiglia e i numerosi fratelli, era appassionata di medicina e leggeva Platone, Shakespeare e Tolstoj. Ma aveva una luce, una luce che neppure la più buia sofferenza della malattia avrebbe potuto spegnere. “Benedetta, Benedetta, noi sappiamo cosa vuoi: camminare dentro al cuore della gente come noi!” ha cantato in festa il Coro di Santa Maria della Neve nell’omonima chiesa di Sirmione lo scorso 23 gennaio, durante la Messa in occasione dell’anniversario di morte della Beata Benedetta Bianchi Porro, presieduta dal Vescovo di Verona Mons. Giuseppe Zenti. Dopo la beatificazione su disposizione di Papa Francesco il 14 settembre 2019, la sua fede e mitezza si riaccendono nel cuore di parenti, amici e fedeli.
Spentasi nel 1964 alla giovane età di 28 anni a causa della neurofibromatosi multipla, il suo amore per la vita nonostante la malattia e la solitudine è un esempio per i giovani affinché, soprattutto in questo periodo, sappiano come lei “trovare la luce” anche nella sofferenza, nella distanza e nell’apparente abbandono.

La vita e gli anni di malattia
Benedetta è la seconda di sei figli. Nata a Dovadola, piccolo paese in provincia di Forlì, l’8 agosto 1936, nel 1951 si trasferisce a Sirmione del Garda, trovando nella penisola lacustre un luogo dove anche la natura potesse ispirarle la presenza divina. Cresce tra i fratelli, lo studio e la musica. Ma i segni della sofferenza cominciano a manifestarsi sul suo corpo: già colpita dalla poliomielite a tre mesi di vita, rendendola così soprannominata “zoppetta”, a tredici anni comincia a perdere progressivamente l’udito, a quindici le capacità motorie.
È solo al quarto anno della facoltà di medicina quando, attraverso le conoscenze mediche appena acquisite, si autodiagnostica la neurofibromatosi diffusa. Nonostante i numerosi interventi chirurgici, le condizioni fisiche, come la cecità, si aggravano ed è costretta a ritirarsi dagli studi a pochi esami dalla laurea. Negli ultimi anni di vita trascorre la maggior parte del tempo a scrivere sul suo diario, che le permette di comunicare la propria fede e di vivere serenamente anche nella sofferenza, oltre che essere un’importante testimonianza scritta dell’intelligenza e sensibilità della giovane. “Un giorno non sentirò più gli altri, ma continuerò a sentire la Voce della mia anima”. Muore il 23 gennaio 1964 a Sirmione.

Beatificazione
Qualche tempo prima della morte, Benedetta ha una visione: una tomba aperta, una luce e una rosa bianca. Il mattino di quel freddo 23 gennaio, una rosa bianca fiorisce nel giardino di casa mentre Benedetta è pronta a tornare in cielo, ringraziando tutti quelli che l’hanno sempre circondata e amata. Questo prodigio segna la strada della sua beatificazione. Nel 1993 la Chiesa cattolica emette il decreto di introduzione alla causa di santità conferendole il titolo di venerabile. Il 14 settembre 2019 è stata proclamata beata da Papa Francesco.

Gli Amici di Benedetta
Ma il suo spirito, e soprattutto la sua fede, non muoiono con lei. Dagli anni Ottanta è possibile sostenere la Fondazione Benedetta Bianchi Porro, ente ecclesiastico con sede a Forlì, e far parte degli Amici di Benedetta, un gruppo di ragazzi, fedeli e non, che, incontrandosi, si avvicinano alla Beata con la lettura dei suoi numerosi scritti. Gli scopi prefissati sono la valorizzazione del suo messaggio di fede, lo studio e l’approfondimento dei suoi testi, la prosecuzione della causa di santità e la diffusione della sua conoscenza con la pubblicazione. Molte, fino ad oggi, le stampe di libri a lei dedicati, documentari e servizi TV.
La sua vita è un messaggio ai giovani di speranza, bellezza e ricchezza di spirito. Nella lettera ad un giovane disperato, la Beata si rivolge all’amico: “la vita è breve, passa velocemente, tutto è una brevissima passerella”. Ci esorta a far buon uso del tempo, vivendo appieno i momenti di sofferenza tanto quanto quelli di gioia. Per Benedetta “è possibile essere felici, nonostante la nostra debolezza e persino nella sofferenza estrema“.
Per Benedetta l’infermità era un dono dal cielo, la prova che Dio le aveva affidato per accrescerla in fede e amore. In fondo, cosa sarebbe stata Benedetta senza la sua malattia? Forse una ragazza dolce, gentile, ma comune. “Nella tristezza della mia sordità, e nella più buia delle mie solitudini, ho cercato con la volontà di essere serena per far fiorire il mio dolore”. La giovane ha utilizzato la difficoltà della solitudine come strumento, un pretesto per cercare, anche nella monotonia, una spinta per andare avanti, un vero motivo per vivere serenamente. È dovuta andare a fondo, scavare nella verità. “Le decisioni divine, anche se sembrano dure, sono per il nostro bene”, dice la giovane. Dipende da noi. Come vogliamo vivere questo tempo di lontananza dagli amici, dalla scuola, da certe esperienze? Rifugiandoci nella solitudine o rinascendo da questa?