Che sia per tutelare una minoranza, o per protestare per una buona causa, il mondo cinematografico e musicale statunitense ha sempre prodotto opere che mirano a criticare la società americana. Un esempio è Bowling at Columbine, docufilm del 2002 vincitore di un Oscar, diretto da Michael Moore, che criticava aspramente l’uso (e talvolta addirittura il culto) delle armi negli Stati Uniti, utilizzando come punto di partenza la strage avvenuta nel 1999 alla Columbine High School (Colorado), nella quale ci furono 14 morti (compresi i due ragazzi colpevoli della strage).

Altra perfetta testimonianza, questa volta più recente, è sicuramente This is America, singolo pubblicato nell’estate del 2018 di Donald Glover, in arte Childish Gambino. Ignorando completamente la musicalità del pezzo, venne immediatamente criticato per le immagini estremamente crude che proponeva e facendo questo, dato il titolo, dipingeva un’immagine tutt’altro che positiva degli Stati Uniti: si parla ovviamente delle famose scene in cui il protagonista spara a sangue freddo prima a un personaggio incappucciato, e poi ad un intero coro gospel.

La prima critica sociale che muove il brano è la discriminazione che subisce la società afroamericana negli Stati Uniti, argomento tornato tanto in voga in questo periodo. Che si possa mettere in discussione il tema è legittimo, ma ciò che è innegabile è la complessità e la profondità del videoclip: con la piena consapevolezza di sconvolgere lo spettatore, è un potpourri di generi musicali, citazioni e storia, riuscendo a mettere paradossalmente in secondo piano le sonorità. Ciò che riesce a fare alla perfezione Glover è prendere alla sprovvista così tanto l’ascoltatore che quest’ultimo si trova costretto ad interrogarsi sul tema che propone: l’America è davvero un paese così razzista?
Domanda questa che ovviamente non si è posta il web, dove la canzone sulla piattaforma Tik Tok la scorsa primavera è diventata il vero e proprio inno del movimento Black Lives Matter, ignorando le mille sfaccettature del pezzo, che presenta anche critiche nei confronti di certi stili di vita della società afroamericana; ma questo, si sa, non importa: dal momento che si approda sul social network che, per antonomasia, rappresenta l’idiozia e dove la soglia d’attenzione media è estremamente bassa, chi presterà mai ascolto al testo di una canzone? A volte va ricordato che combattere per una buona causa non vuol dire impostare un sottofondo musicale, di cui non si conosce nemmeno il significato, e registrare un video dove lo si balla, per poi postarlo sui social. Si è arrivati ad un punto in cui persino la protesta ha assunto aspetti estetici: l’importante è che il mondo mi veda, non più quello che la causa rappresenta per me.

Tema più che mai attuale, sono stati diversi gli episodi che hanno mosso rivolte nell’ultimo anno, primo su tutti la morte di George Floyd, che risale al 25 maggio scorso. Il movimento sociale più attivo a riguardo si è rivelato essere proprio il Black Lives Matter, che militava dal 2012. Tornando indietro nel tempo di un paio di mesi, la situazione è la seguente: la nazione, in subbuglio, freme dal puntare il dito verso qualcuno che sia responsabile di questo improvvisa ondata di razzismo. Il dito viene puntato al buon vecchio Donald: si aspettano le elezioni. E’ a quel punto che i social media, anche in Occidente, cominciano a sguinzagliare i leoni da tastiera, che sentenziano: Donald Trump è razzista, misogino e soprattutto (è qui che emerge la totale ignoranza del web) fascista.
Il risultato di questo “raid” finale è quello sperato, Biden viene nominato presidente: B.L.M. e compagni festeggiano (con forse un po’ di anticipo) e la classe occidentale radical chic gongola. E’ ovviamente superficiale dire che l’ex presidente statunitense sia stato linciato solo negli ultimi mesi, non è mai stato visto di buon occhio dalla sua controparte democratica ed ha sempre peccato, ammettiamolo, solamente di falsa, ma indispensabile diplomazia, qualità che invece ha eccome il suo avversario Biden. Quest’ultimo, infatti, nel suo discorso d’insediamento, ha deciso, per garantirsi più favori possibili, di capovolgere totalmente quanto detto nei quattro anni precedenti da Trump (eccezion fatta per il sempreverde “suprematismo bianco”), dimostrando per giunta una scarsa fantasia.

E’ chiaro a tutti quindi che, dopo la visione di questa cerimonia, l’ex vicepresidente è sicuramente più sveglio di quanto sembri, in un momento delicato come questo infatti, la partecipazione da una parte di Lady Gaga, uno degli esponenti della comunità LGBT, e dall’altra di Jennifer Lopez, il cui compito è stato quello di parlare rigorosamente in spagnolo (c’era infatti il rischio di discriminare un’altra minoranza) sono scelte sicuramente astute e che attirano voti, per non parlare poi della nomina della vicepresidente. Lo spunto di riflessione da cui ognuno, assistendo a questa situazione, dovrebbe partire è dunque questo: la colpa era davvero del presidente? Questo razzismo, presupponendo che ci sia, non poteva forse essere intrinseco nella società? O magari, più probabilmente, un problema di una stretta élite? Questo bisogno incontrollabile di Biden di estremizzare (al polo opposto) la politica di Trump non dovrebbe far suscitare qualche dubbio?

Sono tutte domande a cui ovviamente solo il tempo potrà rispondere, ci si augura nonostante tutto che l’America, indipendentemente da chi sia a capo, riesca a rialzarsi da questo periodo di crisi sociale: che le minoranze ottengano ciò che vogliono, non però facendo propaganda on-line, ma mettendoci la faccia, senza modellare a proprio piacimento la realtà dei fatti e non trasformando il proprio pensiero in mero vittimismo.