L’attimo fuggente, che a partire dal 2 giugno 1989 cominciò ad essere sotto gli occhi di tutti, si può dire che oggi sia un vero e proprio cult, capace di segnare intere generazioni, ed è caldamente consigliato a chi ancora non l’avesse visto. Questo perché la profondità e allo stesso tempo la semplicità dei messaggi trasmessi dalla pellicola in cui recita uno straordinario Robin Williams è tale da risultare sconvolgente e toccante per qualunque spettatore, indipendentemente dalla sua fascia d’età.

“O capitano, mio capitano…”
Al centro dell’attenzione c’è senza dubbio, come dicevamo, un Robin Williams sensazionale, che è nelle vesti di un personaggio così complesso da rendere questa sua performance memorabile (come d’altronde riuscì anche a fare in altre sedi, ad esempio in “Will Hunting”). Guardare e riguardare questi tipi di film fa sempre di più rimpiangere di aver perso un artista del suo calibro: nato in un primo momento come comico, si è ben presto rivelato essere all’altezza di qualunque ruolo, riuscendo a renderlo sempre suo e aggiungendo sempre un suo “tocco”, spesso condito da elementi di malinconia e di riscatto, che innalzano i suoi personaggi fino all’immortalità. La sensazione che si ha durante la visione del film è che il rapporto tra professore e studenti finisca quasi per essere come tra padre e figlio, usando un linguaggio spesso forte ma pur sempre invitando a superare quelle barriere e quei limiti che invece il figlio è convinto siano invalicabili.
L’incitamento a superare gli standard imposti dalle istituzioni è un elemento legante, ed è la prima cosa che attira l’attenzione degli studenti, che cominciano ad intuire di non avere un normale professore davanti. E poi arriva il messaggio che dà il nome alla pellicola: “cogli l’attimo”. La scena in cui il professore lo dice per la prima volta agli studenti è da brividi e dà letteralmente uno schiaffo a tutte le correnti di pensiero secondo cui la vita aspetta e offrirà sempre opportunità. Non è così: cogliere l’attimo, e cioè l’unico barlume di speranza che si paleserà, è superlativo se si vuole rendere degno di nota quel labirintico gioco sadico che è la vita.

Realismo crudele

Il famoso monito che spesso si recita come fosse un intercalare, “carpe diem”, è in realtà frutto di un autore latino molto importante, che è Orazio. Poeta del I secolo a.C. nato nel centro Italia, è ritenuto tutt’oggi uno di quegli autori che, nonostante le basi fossero già state poste, contribuirono a creare quella vastissima e variegatissima scena letteraria a Roma. Rispettando il filone caratteristico dell’età augustea, le sue opere seguono gli standard di raffinatezza, eleganza e linearità. Seguendo poi i passi dei precedenti poeti neoterici, si fa influenzare fortemente dal modello lirico greco, ed è a quel punto che compone le Odi: una raccolta di 103 poesie divise in quattro libri che vanno a formare quella che è considerata la sua opera più importante.
I temi trattati sono molto vasti e vanno da quelli più erotici (l’amore di Orazio è però caratterizzato da un certo distacco e da una sottile ironia) a quelli più religiosi. È nel bel mezzo di questa fitta mescolanza di temi e di stili che emerge l’ode dedicata al “Carpe diem”, un’esortazione che l’autore dedica ad un amico (la cui effettiva esistenza viene ancora messa in discussione) a vivere ogni attimo della vita, senza pensare e senza preoccuparsi del futuro, dato che spesso e volentieri questo è più amaro e angosciante del presente.
Un destino uguale per tutti
L’abilità del film di Peter Weir sta non solo nel reinterpretare in modo estremamente incalzante e attuale questa tematica, bensì nel riadattarlo al contesto dei personaggi: il professor John Keating (Robin Williams) per trasmettere i suoi messaggi usa proprio la poesia, strumento che per giunta riesce a rendere l’uomo immortale e a sconfiggere parzialmente quel tanto agognato e inevitabile destino. Sì perché è proprio a questo concetto che il film orbita durante tutta la sua durata: l’uomo, che piaccia o no, finisce per essere “cibo per i vermi”, e per quanto si possa essere fieri e potenti in vita, non si può sfuggire a questa drammatica fine. Ma è appropriato definirla “drammatica”? Che piuttosto sia ringraziata la morte, l’unica certezza che riesce a dare un senso ad una vita piena di incertezze e di punti interrogativi. Cogliere l’attimo per procrastinare e rendere degno di nota il proprio destino, ripudiando l’unico vero incubo dell’essere umano: venire dimenticati.