Si avvicina l’anniversario dall’inaugurazione dell’ospedale di Negrar. Sono passati quasi 100 anni da quando l’opera calabriana è stata fondata, da quel lontano novembre del 1922 quando sono state allestite le prime stanze di degenza della clinica Sacro Cuore di don Sempreboni. Ad oggi la struttura, notevolmente ingrandita, rimane intrisa di quello spirito sul quale ha mosso i primi passi. Casa di ricovero e cura che ospita ogni anno centinaia di pazienti promuovendo tecniche all’avanguardia e costantemente aggiornate nei progressi scientifici.
Immaginiamo, quindi, di fare un viaggio nel tempo e di spostarci nel secolo scorso e di porre alcune domande a don Calabria.

Giovanni, come ha vissuto la sua giovinezza?
Era l’8 ottobre 1873 quando nacqui a Verona ultimo di sette fratelli. Mio padre, Luigi, faceva il ciabattino, mentre mia madre, Angela, prestava servizio in una casa di benestanti. Purtroppo, mio padre si ammalò presto, così ho dovuto lasciare la quarta elementare, e trovare un lavoro per sostenere economicamente la mia famiglia, che era molto povera. Inizialmente trovai un impiego in bottega, poi mi misi anche al servizio di due sorelle ebree. Ricordo che, quando si recavano in sinagoga il sabato, ero solito seguirle, incuriosito dalla loro fede. Non ero adatto ai lavori manuali, e questo mi portò ad ottenere molti impieghi, ma anche molti licenziamenti. Dopo la morte di mio padre, confidai a mia madre di voler intraprendere il percorso verso il sacerdozio e fu don Pietro Scapini ad aiutarmi, preparandomi a superare le prove di ammissione al liceo del Seminario, che frequentai come esterno. Compiuti 20 anni, fui chiamato a prestare servizio di leva militare, dove mi occupai dei malati e, una volta tornato, ripresi gli studi, iscrivendomi alla facoltà di Teologia. Ero intenzionato infatti a diventare sacerdote. Ricordo quando mi candidai al sacerdozio, nel 1901: non ero molto bravo con gli studi, ma il vescovo Bartolomeo Bacilieri non sembrò preoccuparsene; rammento ancora le sue parole, che mi furono riferite: “abbiamo ammesso tanti chierici dotti; ammettiamone uno pio”.
Ci hanno parlato della sua grande carità e della sua attenzione verso ognuno. Da dove è nata questa sua predilezione per le persone bisognose?
È difficile spiegare da dove sia nata. So che, mentre prestavo servizio militare, mi occupavo solitamente dei malati e dei feriti; quando avevo del tempo libero facevo visita agli ammalati, soprattutto perché bisognosi di conforto. Ricordo quella fredda notte di novembre del 1897, avevo appena terminato di prestare servizio militare. Stavo tornando da una visita agli infermi dell’ospedale e vidi lì sulla porta di casa un bambino fuggito dagli zingari. Lo accolsi con me, lo portai in casa e condivisi con lui ciò che possedevo. Da quel momento iniziai a compiere alcune opere in favore degli abbandonati e degli orfani.

Come ha accolto le esigenze delle persone?
Durante il mio percorso sacerdotale ho incontrato molte persone bisognose d’aiuto o di cure. Proprio per questo motivo iniziai dal 1907 ad aprire case di cura e di accoglienza come la “Casa Buoni Fanciulli”, una fondazione che trovò come collaboratori anche molti laici. Questa fu uno spunto e una base d’appoggio per altre opere come “Poveri Servi e Serve della Divina Provvidenza” o come il progetto della “Famiglia dei Fratelli Esterni”, dove cercai di coinvolgere le persone laiche nel disegno d’aiuto.
Mi è stato accennato qualcosa in proposito dell’ospedale di Negrar…Per quale motivo le è stato affidato il compito di portare a termine quest’opera?

Ha saputo anche lei di questa iniziativa? Era il primo novembre del 1922 quando don Angelo Sempreboni inaugurò con la benedizione l’ospizio con nome Casa del Sacro Cuore. Nel frattempo, decise di avviare il progetto di un ricovero per gli anziani e una struttura ospedaliera. Ma l’ospedale, una volta terminato nel 1931, non venne aperto, per mancata autorizzazione. Purtroppo, le domande di apertura vennero ripetutamente respinte e don Angelo non riuscì a vedere realizzato il suo progetto. Le autorità locali, infatti, negavano l’autorizzazione perché ritenevano il sacerdote un nemico del regime totalitario fascista. Don Angelo, però, ne era al corrente, tanto che pur di avviare il suo progetto, decise di affidare il compito alle Piccole Suore della Sacra Famiglia. Queste ultime non si ritenevano in grado di portare a termine il lavoro. Dunque don Angelo, mentre ero andato a trovarlo, mi chiese se potevo finire il suo progetto e realizzarlo, in modo da aprire la tanto attesa struttura ospedaliera.
Come spera che si sviluppi la sua opera?
Sicuramente, essendo un ospedale, spero che diventi una struttura in grado di accogliere i bisognosi di cure in un clima familiare e, al tempo stesso, che possa offrire i migliori servizi.