
La Rivoluzione russa scoppiò nel febbraio 1917. Un mese più tardi Nicola II, imperatore e autocrate di tutte le Russie, abdicò, diventando semplicemente Nicola Romanov. Con la rivoluzione in patria e il catastrofico fallimento della Prima Guerra Mondiale, la dinastia dei Romanov, che nel 1913 aveva festeggiato tre secoli al potere, giunse a una rapida fine. Le forze bolsceviche tennero la famiglia prigioniera, insieme ad alcuni servitori, spostandola di luogo in luogo fino all’esecuzione.
Descritto come un uomo limitato e privo di immaginazione, Nicola non era adatto, né per capacità né per temperamento, a governare in tempi tanto turbolenti e lo sapeva anche sua moglie Alessandra, che tendeva a prendere le redini della situazione più di suo marito. Indeciso cronico, quando doveva dare un ordine rimandava fino all’ultimo istante, per poi ripetere semplicemente l’ultimo consiglio ricevuto.
Ciononostante, l’ultimo zar rimase cieco di fronte alla propria crescente impopolarità, convinto che il popolo lo amasse ugualmente. I suoi sudditi, però, avevano opinioni diverse. La propaganda bolscevica l’aveva soprannominato “Nicola il Sanguinario”.
La famiglia imperiale

Nicola era un uomo legato alla famiglia. Amava la moglie e cugina di secondo grado Alessandra, nipote della regina Vittoria del regno Unito, e lei amava lui. In un’epoca in cui la regola generale era che i monarchi si sposassero per interessi dinastici più che per affetto, la loro era un’unione fortunata. Convolati a nozze nel 1894, i due ebbero l’una dopo l’altra quattro figlie: Ol’ga, Tat’jana, Marija e Anastasija. Aleksej, il tanto desiderato maschio nonché erede, nacque per ultimo, nel 1904, affetto dall’emofilia che farà soffrire di ansie e angosce la madre per molto tempo.
Il suo carattere nervoso le assicurava l’attenzione costante del marito e delle figlie. Tra la più grande e la più piccola delle granduchesse correvano quasi sei anni. Le maggiori, Ol’ga e Tat’jana, venivano affettuosamente chiamate “la coppia grande”, mentre le più giovani, Marija e Anastasija, erano “la coppia piccola”. Tutti quanti stravedevano per il figlio minore, Aleksej.
Rasputin

Grigorij Rasputin, nato nella Siberia occidentale, era un sedicente uomo di Dio, rinomato per il comportamento licenzioso, le abilità curative e la capacità di predire il futuro. Non è chiaro se fosse un imbonitore o ritenesse realmente di avere poteri soprannaturali. I Romanov credevano ciecamente in lui: Rasputin ebbe una grande influenza sulla famiglia imperiale, soprattutto su Alessandra. Quando Rasputin conobbe i Romanov, nel 1905, la zarina era disperata. Proprio quell’anno la rivoluzione aveva quasi rovesciato la monarchia. La nascita di Aleksej, l’anno prima, le aveva dato l’erede nel quale lei sperava, ma l’emofilia del bambino, oltre a essere una tragedia personale, era anche una minaccia per la dinastia.
La crisi politica e l’agonia materna permisero a Rasputin di insinuarsi in seno alla famiglia. Nel 1908 Aleksej soffrì di una forte emorragia e il mistico riuscì ad alleviarne il dolore. Si narra che quest’ultimo avesse raccontato a Nicola e Alessandra che la salute del figlio sarebbe stata legata alla forza della dinastia. La sua abilità nel mantenere il bambino in salute gli avrebbe assicurato un posto a palazzo e il potere di influenzare lo zar. Girava voce che il comportamento depravato di Rasputin fosse arrivato fino a sedurre la zarina. Per quanto quasi sicuramente non sia stato l’amante di Alessandra, alla corte dei Romanov egli ebbe relazioni con un numero incredibile di donne. Ignorando le richieste di allontanarlo, Nicola fece ancora più arrabbiare il popolo russo: il desiderio di rendere felici la moglie e il figlio gli impedì di rimuovere la minaccia che incombeva sul suo impero.

La vita in prigionia
Per i bolscevichi i Romanov divennero pedine di scambio e insieme un grande grattacapo. La Russia doveva negoziare la propria uscita dalla Prima guerra mondiale ed evitare, nel frattempo, un’invasione straniera. I nemici della nazione avrebbero tenuto gli occhi puntati su di loro, per vedere che cosa ne sarebbe stato degli ex governanti; ma, rimanendo in vita, i Romanov avrebbero rappresentato un simbolo per il movimento monarchico.
All’inizio la famiglia fu mandata nel palazzo di Carskoe Selo, ma, per problemi di sicurezza, fu poi trasferita a Tobol’sk, a est dei monti Urali. Lì i Romanov non venivano trattati male. Nicola sembrava quasi rinato: si godeva la vita rurale e non sentiva certo la mancanza dello stress che essere zar gli procurava. Avevano mantenuto un seguito generoso – 39 servitori in tutto – e conservato molti beni personali, tra cui l’adorato album di fotografie di famiglia rilegato in pelle. In quei primi giorni di prigionia potevano ancora sognare un lieto fine. Avrebbero potuto raggiungere l’Inghilterra e vivere in esilio con il cugino britannico, re Giorgio V.

Non capivano che, a poco a poco, tutte le vie di fuga si stavano chiudendo. Fino a che rimase solo la strada per Ekaterinburg. Quest’ultima era la città più radicalizzata della Russia, fortemente comunista e anti-zarista. Lì la famiglia alloggiava in un grosso edificio conosciuto come Casa Ipat’ev, dal nome dell’ex proprietario.
Gli ultimi giorni
I Romanov dovevano essere uccisi perché erano il simbolo supremo dell’autocrazia. L’ironia era che a Ekaterinburg i bolscevichi li avevano spogliati di ogni traccia di aristocrazia. La notte del 16 luglio fu inviato a Mosca un telegramma che informava Lenin della decisione di trucidare i prigionieri. All’una e trenta del mattino Jurovskij informò i Romanov che il conflitto tra le armate rossa e bianca stava minacciando la città e che, per la loro stessa sicurezza, dovevano essere trasferiti nel seminterrato.
L’ultima notte

Non ci sono prove di come i Romanov abbiano reagito. Portando in braccio lo zarevič, Nicola guidò in cantina la propria famiglia e i quattro servitori rimasti con loro: il medico di famiglia Evgenij Botkin, la cameriera Anna Demidova, il cuoco Ivan Kharitonov e il domestico Aleksej Trupp. Riuniti tutti insieme in quel luogo angusto e spoglio, apparivano ancora ignari del proprio destino. Furono portate tre sedie per Alessandra, Nicola e Aleksej, mentre gli altri rimasero in piedi. Jurovskij si avvicinò con i carnefici dietro di lui sulla soglia e lesse ai prigionieri attoniti una dichiarazione preparata: «Il praesidium del soviet regionale, adempiendo al volere della rivoluzione, ha decretato che l’ex zar Nicola Romanov, colpevole di innumerevoli sanguinosi crimini contro il popolo, debba essere fucilato».
Quando Jurovskij terminò la lettura, le guardie cominciarono a sparare. I racconti sono contrastanti, ma la maggior parte concorda nel dire che lo zar sia stato il bersaglio principale e che morì in seguito a diversi colpi di arma da fuoco. La zarina spirò per un proiettile in testa. Mentre la stanza si riempiva del fumo degli spari, tutta la disciplina del plotone svanì. Le granduchesse sembravano non essere state ferite dai proiettili, che erano rimbalzati sui loro corpi (si scoprì in seguito che, durante l’assalto iniziale, i gioielli tempestati di diamanti cuciti sui vestiti avevano agito come un’armatura). Uno dei carnefici – un ubriacone di nome Ermakov, – perse il controllo e cominciò a colpire i Romanov con una baionetta. Dopo venti minuti di puro orrore, l’intera famiglia e il seguito, colpiti da proiettili, armi da taglio o a mani nude, erano tutti morti.
La verità venne a galla

In seguito al massacro, quando si affrontava l’argomento, i funzionari sovietici diventavano evasivi. Anche dopo aver annunciato la morte di Nicola, per un po’ sostennero che Alessandra e Aleksej fossero vivi in un luogo sicuro. I decessi sarebbero stati ufficialmente confermati solo nel 1926, e anche allora i bolscevichi rifiutarono di assumersi la responsabilità dell’esecuzione.
Il silenzio forzato attorno al destino dei Romanov può aver represso la pubblica discussione, ma alimentò un’infinita curiosità. Nei decenni successivi spuntò un notevole numero di impostori, la maggior parte dei quali sosteneva di essere uno dei figli dello zar. Ogni volta che compariva un nuovo pretendente, la storia tornava a galla, impedendo che il mistero venisse definitivamente sepolto, come in molti invece speravano. Nel 1979 una coppia di investigatori dilettanti scoprì il luogo di sepoltura principale vicino a Ekaterinburg, ma il ritrovamento fu tenuto segreto fino a dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Nel 1991, mentre in Russia si diffondeva una nuova rivoluzione, alcuni scienziati tornarono a Ekaterinburg per riscattare la storia. Esumarono i resti di nove persone, in seguito identificate come Nicola, Alessandra, Ol’ga, Tat’jana, Anastasija e le quattro persone del loro seguito. Il rinvenimento delle loro ossa diede inizio a un processo che ha consentito di portare alla luce sia gli orrori della loro morte sia il loro posto nella storia. Nel 1998 i resti furono sepolti nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo di San Pietroburgo, luogo tradizionale di sepoltura degli zar.

Nel 2000 la Chiesa ortodossa russa canonizzò Nicola, Alessandra e i loro figli come “martiri della passione”. A Ganina Jama – il primo luogo in cui i bolscevichi tentarono di disfarsi dei corpi – la Chiesa ortodossa russa costruì un monastero. Dove un tempo si ergeva Ipat’ev, nel 2003 fu consacrata la magnifica chiesa sul Sangue, divenuta da allora luogo di pellegrinaggio. Nel 2007, infine, furono trovati i resti di Aleksej e Marija, in seguito identificati grazie all’analisi del DNA. Qualcuno ha detto che le famiglie molto unite possono tagliarsi fuori dal mondo. Così è stato per i Romanov. Il loro egocentrismo gli ha impedito di accorgersi del pericolo, ma il loro amore li ha rafforzati, rendendone il confino sopportabile. Il fatto che fino alla fine siano almeno rimasti insieme è stata la più grande benedizione dei loro ultimi mesi.