La banalità del male e l’importanza del ricordo

In onore della giornata della memoria, ricordiamo le storie atroci di uomini e donne privati della loro dignità e libertà nei lager nazisti, grazie a una delle voci più autorevoli come quella di Hannah Arendt.

Hannah Arendt
Hannah Arendt
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La giornata della Memoria, celebrata ogni 27 gennaio, ricorda i milioni di ebrei deceduti nei campi di sterminio nazisti. Fa ripensare alla grande speranza e alla forza delle persone che sono riuscite, nonostante tutto, a sopravvivere ai lager e anche a chi vi è deceduto in quell’inferno terrestre. Hannah Arendt, politologa e filosofa tedesca del Novecento, forte della sua personale esperienza, come intellettuale e osservatrice, al processo “del secolo” ossia quello che ha visto come imputato Eichmann dallo stato ebraico e decise di mettere per iscritto tutto nel celeberrimo testo intitolato “La banalità del male”.

Si è trattato di un processo tra carnefice e vittime, che ha visto al banco degli imputati, proprio colui che ha contribuito in maniera decisiva a organizzare la “Soluzione Finale”, ovvero la deportazione nei campi di sterminio. Eichmann insieme a Mengele furono anche i principali gerarchi nazisti a fuggire dal processo di Norimberga. Pertanto, se la sorte e le autorità internazionali permisero a Mengele di morire di morte naturale, in Brasile, a metà degli anni Settanta, la stessa fortuna, invece, non accompagnò Eichmann; infatti venne rapito dai servizi segreti israeliani in Argentina e condotto a Gerusalemme per “difendersi” dall’accusa di genocidio di sei milioni di persone ed ebrei.   

Il campo di sterminio di Auschwitz

Il male radicale e il male banale 

“La banalità del male” di Hannah Arendt edito Feltrinelli

Hannah Arendt individuò nel concetto di “male radicale” ciò che ha accompagnato le possibilità dell’uomo: da Auschwitz, Mauthausen, Dachau, all’esperienza politica del nazismo come trionfo di Thanatos e della violenza. Tuttavia, al male radicale si contrappone la “banalità del male”; infatti Eichmann si presentò al processo con un tono da piccolo burocrate innocente, quando ci si aspettava ben altro; infatti chiunque si sarebbe immaginato di vedere un facsimile di uno dei personaggi appena usciti dai Demòni” di Dostoevskij, ma non fu così. Egli scelse di difendersi, sostenendo la più vile delle giustificazioni: “l’obbedienza all’ordine superiore a lui”. 

Perciò secondo Eichmann, il suo “unico errore” è stato proprio quello di essere stato “troppo zelante”. Emerge il tema della macchina burocratica che vive, sopravvive e diventa egemone attraverso l’obbedienza cieca e silente di migliaia di uomini. Tuttavia, la vera colpa che Eichmann non è riuscito a ricavare dalle sue stesse azioni è il fatto che: non oppose mai una coscienza saggia a questo ingranaggio, mettendosi al servizio passivo e supino di un potere violento, che causò morti e sofferenze indicibili. 

La differenza tra male radicale e banale

Il processo di Eichmann a Gerusalemme

La difesa di Eichmann dimostra quanto sia pericoloso il male banale, poichè quest’ultimo si nasconde dietro le facce di uomini “dabbene”, ma che in realtà, scelgono il patto con Mefistofele, facendosi trasportare dalla mera avidità, dalla cupidigia e dal desiderio di potere. 

Il male radicale richiede una scelta, un’adesione e un coinvolgimento sentito. Al contrario, il male banale richiede l’obbedienza supina, ciò a cui gli uomini sono particolarmente predisposti.

La voce di Erich Fromm

 Anche lo stesso E. Fromm nel libro “Avere o essere?” nell’ultimo capitolo “L’uomo nuovo e la società nuova” illustra le direttive efficaci, affinchè si possa edificare una nuova società fatta di uomini nuovi e migliori; uno dei tanti punti indagati da Fromm e la necessità di sviluppare il proprio spirito critico, poiché se l’intera società diventa un grande meccanismo a direzione centralizzata, a lungo andare il nazismo, il fascismo o qualsiasi altro tipo di “movimento” risulterà quasi inevitabile e gli individui si trasformeranno in soggetti passivi, perdendo la capacità di pensare criticamente;  si sentiranno impotenti, assumeranno un atteggiamento qualunquistico e aspireranno sempre a un “capo” che sappia che cosa fare. 

Questa “megamacchina”, di cui parla Fromm, può essere messa in funzione da chiunque abbia accesso a essa, semplicemente premendo i bottoni adatti. E ad agevolare tale ascesa sarà anche il popolo se si mostrerà disposto a perdere le proprie libertà, pur di sentirsi parte di un grande progetto di cui nemmeno si conoscono i valori. 

Eichmann è stato l’esempio di perfetto burocrate; egli aveva compiuto il suo dovere: obbediva come un burattino agli ordini. Ai suoi occhi, null’altro importava se non l’obbedienza alle regole e si sarebbe sentito in colpa solo se non le avesse rispettate. Per esempio, quando accade che il “burocrate” di un ospedale rifiuta di accogliere un individuo in gravi condizioni perché i regolamenti esigono che la richiesta di ammissione sia presentata dal medico, è certo che anche quel “burocrate” non si comporta in maniera diversa da un Eichmann.

L’interpretazione di Günther Anders 

Anders nel suo libro “Noi figli di Eichmann” ritiene che il nazismo possa essere considerato il prototipo dell’età della tecnica, dove la vita emotiva diventa irrilevante e la responsabilità non riguardano più il contenuto della propria azione o gli effetti che ne derivano, ma unicamente la buona esecuzione degli ordini ricevuti dal superiore, per cui anche il semplice impiegato di banca che riceve dal suo capo area l’ordine di vendere titoli deteriorati, è ugualmente considerato un “buon” funzionario se riesce a venderli senza scrupoli. 

“Noi figli di Eichmann”

Tuttavia, quanto più si complica un apparato, quanto più esso si intreccia con altri, quanto più si ingigantiscono i suoi effetti, tanto più si riduce la nostra capacità di percepire i gli effetti, gli esiti, gli scopi, di cui siamo parti integranti. L’esperimento nazista nasce per via dell’irrazionalità, la quale scaturisce dalla perfetta razionalità di un’organizzazione che cresce su se stessa al di fuori di ogni orizzonte di senso, dove, come nel caso di Franz Stangl, “sterminare” assume il semplice significato di “lavorare” e questo può essere considerato come quell’evento che segna la nascita dell’età della tecnica, in cui noi oggi viviamo e per cui ciascuno di noi rimane irretito nell’irresponsabilità, che consentirà al totalitarismo della tecnica (nel nostro caso) o al nazismo o ad altro ancora, di procedere indisturbato.

Un breve excursus sulla figura di Franz Stangl

“In quelle tenebre” di Gitta Sereny edito Adelphi

Una delle testimonianze più autorevoli e interessanti circa la figura di Stangl, direttamente coinvolto nella “Soluzione Finale” operata dal Terzo Reich nelle terre dei Paesi occupati come la Polonia, ci viene fornita dalla giornalista ungherese Gitta Sereny, la quale si occupò di documentare per iscritto, nel suo libro intitolato “In quelle tenebre”, le settanta ore di conversazione tenute con il Kommandant del campo di sterminio di Treblinka: il sessantatreenne austriaco Franz Stangl.

L’obiettivo principale della Sereny era quello di trovare insieme a Stangl una verità che avrebbe contribuito a comprendere le “cose” che finora non erano mai state comprese. La Sereny si occupò di indagare il passato di Stangl per riportare alla luce eventuali traumi infantili, che reiterati nel tempo lo avrebbero portato ad abbracciare (o obbedire) certi ordini e ideali: «Non è possibile comprendere un uomo e le sue azioni isolandolo dalla sua infanzia, dalla sua gioventù e dalla sua età adulta, isolandolo dalle persone che l’hanno o non l’hanno amato». 

Emblematica è la risposta che Stangl dà a Gitta Sereny che, nel corso delle sue interviste, gli chiedeva che cosa avesse provato a compiere quotidianamente quelle esecuzioni. Stangl sembrava non cogliere la domanda e l’unica cosa che riuscì a dire: «Io non ero incaricato di provare qualcosa, ma di eseguire il piano che era stato predisposto. E siccome lo eseguivo perfettamente, mi consideravo e tuttora mi considero un ottimo funzionario». 

Misurare le proprie azioni non più in ordine ai valori, ma in ordine alla pura consequenzialità che si stabilisce tra le azioni descritte e prescritte dall’apparato e la loro perfetta esecuzione, fa sì che anche il burocrate di un campo di concentramento o l’impiegato di una fabbrica di armi nucleari o meno possa ritenere di compiere solo un “lavoro” e non un “crimine”. 

Gitta Sereny e Franz Stangl

Hannah Arendt ricorda la lezione morale di Kant

Hannah Arendt ci ricorda come in politica sia necessario anteporre la riflessione coscienziale alle azioni impulsive. Bisogna valutare le massime del comportamento, capire e saper anche ribellarsi al “Tu devi perché devi” kantiano. Lo stato autenticamente libero e democratico è quello in cui i cittadini svolgono una funzione critica e dove sanno valutare, di volta in volta, il peso delle azioni del proprio governo.

Eichmann, con la sua difesa, non ha fatto altro che depotenziare la responsabilità individuale, scaricandola su un meccanismo di controllo e di obbedienza superiore, di cui lui ha avuto la sola colpa di avervi partecipato e obbedito. Insomma, la lezione della Arendt è molto chiara: non dobbiamo piegarci alla banalità del male e a questa deresponsabilizzazione nell’agire: politico, di classe, di fabbrica, di quando siamo in automobile in stato d’ebrezza o con il cellulare, a un concerto o quando governiamo. Gli antidoti contro il male banale e radicale non sono altro che una buona somministrazione di coscienza attiva, spirito critico, moralità e senso di responsabilità.

È necessario ricordare

Il Giorno della Memoria è tale per la legge promulgata nel 2000; prima non se ne sentì, evidentemente, la necessità. Non si riflette mai a lungo e come si dovrebbe circa questo ritardo, che in sè ha tanto da dire. La memoria serve a creare un legame di valori fra le generazioni, suscitando in esse una partecipazione autentica, sentita e profonda. La memoria è una necessità vitale, ma se si trasforma in un obbligo è retorica e vuota, dunque inutile. 

Un Paese senza memoria è cieco e facile preda dei pregiudizi. Un Paese con una memoria plastica e fittizia è ugualmente privo di coscienza pubblica e incapace di riconoscere i valori di fondo di una democrazia. Siamo ciò che siamo stati e non dobbiamo dimenticarlo. La memoria è un passaggio irrinunciabile del prezioso lavoro di “manutenzione dei sentimenti” operato da una nazione. Senza la memoria di ciò che è stato non ci sarebbe rispetto per il prossimo, non ci si curerebbe dell’etica privata e pubblica, non ci sarebbe consapevolezza del dolore e della sofferenza che ha portato alla conquista della libertà. Senza la memoria i torti si confondono con le ragioni; i carnefici si sovrappongono alle vittime, schiacciandole ancora una volta nell’oblio, come fossero semplici numeri, pezzi da smaltire, scarti dell’umanità. Esattamente come durante la Shoah. Senza la memoria le vittime innocenti muoiono ancora. E muoiono nella nostra indifferenza, che è questa la malattia che dobbiamo combattere. E non a caso Liliana Segre volle proprio che la scritta: “INDIFFERENZA” accogliesse i visitatori del Memoriale della Shoah eretto alla Stazione Centrale di Milano. 

Il Memoriale della Shoah voluto dalla senatrice Liliana Segre all’interno della Stazione Centrale di Milano, luogo che in epoca di guerra ha visto partire i vagoni per Auschwitz.

L’importanza della memoria

Come ci saremmo comportati nella medesima situazione? È importante chiederselo per non cadere nell’indifferenza, che è l’anticamera del pregiudizio. E il pregiudizio si nutre di falsità, percezioni scorrette e verità di comodo. Si alimenta della facile individualizzazione di bersagli o capri espiatori su cui riversare il nostro malumore. Oggi, per esempio, sui social network è come se si fossero perduti alcuni importanti freni inibitori civici e, dietro la maschera dell’anonimato, si potesse colpire impunemente chiunque. 

Senza la memoria il fascino delle dittature, come risposta ai problemi, risulterà irresistibile. E questi regimi totalitari appaiono come una scorciatoia credibile dinanzi all’incertezza. Infatti, laddove ci si sente esclusi, penalizzati o in assenza di futuro, la tentazione di far riferimento a un leader carismatico e risoluto è molta. La memoria è un vaccino prezioso ed è un atto di giustizia postumo. È un’orazione civile, senza la quale si perde la direzione della Storia; si smarriscono le stesse ragioni per le quali siamo insieme come famiglie e comunità. Senza memoria il destino è segnato da altri. 

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