Si può essere condannati per più di 46 anni per delle critiche sui social? A quanto pare in Thailandia sì. La donna in questione, Anchan Preelert, una ex funzionaria pubblica di 65 anni, è stata ritenuta colpevole del reato di lesa maestà, per aver diffuso, per 29 volte, su Facebook e YouTube, commenti critici contro l’allora re in carica, Rama IX Bhumibol Adulyadej.

Anchan Preelert ha subito la pena più severa nella storia del regno thailandese.
Il reato di lesa maestà è disciplinato dall’art. 112 del codice penale, che prevede la sanzione della reclusione, da un minimo di tre anni a un massimo di 15 anni, per ogni singolo comportamento di critica o diffamazione contro la Corona.
In questo caso, la sanzione doveva essere quella della reclusione per 87 anni, ma è stata dimezzata perché l’imputata ha confessato di avere commesso il fatto illecito.
Negli ultimi anni le autorità thailandesi hanno più volte abusato del reato di lesa maestà per reprimere il dissenso e limitare la libertà di espressione della popolazione.
Ciò non ha impedito, ma incrementato, specie negli ultimi mesi, contestazioni di migliaia di giovani thailandesi, scesi nelle piazze, rischiando l’arresto, per chiedere le dimissioni del governo, una Costituzione democratica, la cancellazione del reato di lesa maestà e la riduzione dei poteri e privilegi del re, che si trova in una posizione di supremazia e al di sopra della legge.

Nello specifico, riguardo al monarca, le proteste mirano a togliergli l’immunità legale, tagliargli i fondi di cui gode, sottrargli le vaste proprietà. Ridurre, inoltre, le imposizioni fiscali a suo favore, rendere i suoi investimenti trasparenti e tassabili; proibire ai membri della famiglia reale di esprimere pareri politici e sospendere ogni forma di propaganda a suo favore. Infine, investigare sulla scomparsa, negli scorsi anni, delle persone che lo avrebbero criticato ed impedirgli di tramare colpi di stato.
La vicenda thailandese rende spontaneo un confronto con la situazione giuridica italiana.
La nostra Carta costituzionale, all’articolo 21, tutela la libertà di espressione, affermando che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Mentre l’articolo 278 del nostro codice penale punisce, con la reclusione da uno a cinque anni, chi offende l’onore del Presidente della Repubblica, non chi ne critica l’operato.
La critica dell’operato del Presidente della Repubblica, purché proporzionata e misurata, è espressione di libertà in una democrazia, nella quale le istituzioni non sono superiori al popolo, ma devono rispondere ad esso del loro operato e dell’uso dei poteri.
Altra cosa, invece, è il disonore delle istituzioni: offenderne l’onore non è lecito, perché, in questo modo, si offende lo stesso popolo, da cui le istituzioni derivano e che rappresentano lo strumento democratico di governo della comunità.