Il Pascoli patetico, fautore di brevi quadretti idilliaci fine a se stessi, come quello tanto caro alla scuola di un tempo, oggi ci appare inevitabilmente vicino, grazie ai temi legati alla familiarità o agli affetti domestici, che, lasciarono nel piccolo Giovannino, lo strazio a causa degli improvvisi lutti.

Messaggi perturbanti vengono trasmessi dalla poesia pascoliana, forte di temi struggenti e riconducibili a un’esistenza sofferta, poiché costellata da una serie di traumi. Ma diverso è l’invito, che da essa proviene, a non arrestarsi ad una percezione convenzionale e standardizzata della realtà in cui siamo immersi, in base a codici dell’esperienza che la banalizzano e la rendono opaca, bensì a saper cogliere le cose nella loro semplicità e freschezza, come quando un bambino guarda, con meraviglia, qualcosa per la prima volta. Pascoli è come se ci sollecitasse a mantenere quella curiositas, che da bambini ci contraddistingueva, anche nell’età adulta. E solo la poesia ci abitua a guardare alla realtà in un altro modo rispetto a quello consueto, più vivo, immediato e libero da ogni schema o regola predeterminata.
Anche le cose più piccole e apparentemente insignificanti sanno assumere, sotto l’abile penna del poeta, un volto nuovo, rivelando la loro incommensurabile bellezza. È questo il modo migliore di guardare la realtà, affinché essa ci parli o meglio, comunichi al «fanciullino» che è in noi. Non si auspica di essere eterni Peter Pan, persi nelle proprie elucubrazioni mentali e poco calati nel concreto, quanto nel prendere con saputa “leggerezza” quello che la vita propone, rimanendo pressochè imperturbabili a quegli eventi che sconquassano le nostre esistenze, trasmutandoli in un valore aggiunto, che ci rende “umani troppo umani”. Tutto questo a uno scopo: saper cogliere la bellezza della leggerezza, guardare contemporaneamente l’universalmente piccolo e l’universalmente grande, con l’occhio fascinoso di colui che si lascia trasportare e salvare dalla bellezza che popola la Terra.
Il negativo della modernità nascente o imperante
In un’epoca, come la nostra, percossa da conflitti di vario genere e che provocano atrocità in molte parti del mondo, l’appello alla pace, all’affratellamento dei popoli e alla solidarietà umana, che previene dalle pagine pascoliane, pur nella sua dimensione utopica, suona come un monito che colpisce la sensibilità umana nel tentativo di vaccinarsi dall’indifferenza. Un atteggiamento, quello indifferente, che tanti assumono a seguito delle continue notizie terribili, dalle quali pensiamo di “difenderci” con la rimozione, come direbbe Freud, o addirittura rendendo “abitudine” ciò che è intollerabile.
Le parole profetiche di Pascoli
Giovanni Pascoli, vivendo in un momento di grandi trasformazioni ed a cavallo fra i due secoli, nota con minuzia e scrupolosa attenzione quelli che sono gli aspetti negativi della modernità (intuiti ancor prima dall’inesauribile mente leopardiana).
Nel saggio intitolato “Una sagra”, Pascoli elenca una serie di fenomeni di cui noi, a distanza ormai di circa un secolo, ne registriamo gli effetti: le megalopoli invivibili, in cui si ammassano milioni di individui in un’atmosfera inquinata; la concentrazione monopolistica esasperata; i conflitti sociali sempre più gravosi, in cui, come afferma il poeta, «i più forti ingoiano i più deboli» secondo quella sorta di darwinismo sociale; l’omologazione globale che annulla le identità etniche e individuali, creando una società «in cui tutti gli uomini lavoreranno meccanicamente, parlando, o a dir meglio tacendo, in una sola lingua, ubbidendo al cenno invisibile del solo despota che impera nella unica Babilonia»: un «despota» che oggi può disporre, grazie allo sviluppo dei mass-media, di mezzi di dominio e di colonizzazione delle coscienze impensabili al tempo di Pascoli.
Tempo sarà che tu, Terra, percossa
dall’urto d’una vagabonda mole,
divampi come una meteora rossa;
e in te scompaia, in te mutata in Sole,
morte con vita, come arde e scompare
la carta scritta con le sue parole.
[Alcuni versi da “Il ciocco”]